Leonardo

Fascicolo 10


La filosofia che muore
di Gian Falco (Giovanni Papini)
pp. 1-5


p. 1


p. 2


p. 3


p. 4


p. 5


I.

  
(1) Che i vecchi mi perdonino: io son tentato di toglier loro il mestiere, son ridotto a imitarli, son condotto a rimpianger gli antichi giorni. Anch'io scaglierò le mie rampogne incontro al presente, come un arciere che non trova segno abbastanza lontano, come uomo che non trova aria abbastanza per riempire il suo petto. Farò il vecchio per esuberanza di giovinezza, e l'amico dei morti per dispetto dei vivi. Ma non prenderò l'acconciamento e il passo dei modelli. Non mi coprirò la testa di leggendarie parrucche, nè modulerò i miei lamenti in cavatine rauche e tabaccose.
   Chiamerò l'antico tempo che fu giovine, vivo, danzante; ch'è giovine ancora in noi, che vive ancora nel nostro spirito, che danza ancora le sue sarabande furiose di tra le morte parole; che soltanto nelle pagine di questa decrepita meretrice, di questa perpetua ingannatrice ch'è la storia, appare cadente e stanco come un vecchio che abbia perduto l'ultima forza e l'ultima speranza. Sarò un laudatore del passato non per impotenza, come ai vecchi accade, ma per troppa potenza.

II.

   Cosa rimpiangerò io dei giorni lontani? Di quale tempo farò la mia patria nuova?
   Non certo, come un pallido romantico ritardatario, rievocherò i castelli incantati, le corti d'amore, le belle giostre oleografiche, allietate dai sorrisi delle madonne dipinte, dai canti dei trovadori e dai motteggi de' buffoni. E neppure, come un'esteta delicato, imprecherò alla scomparsa dei rossi carri tirati dai lenti buoi, e delle piccole case, nascoste al vapore dei frettolosi meccanici. E neppure, nuovo romeo della Grecia, io sognerò nel mio sogno le feste dionisiache, i giuochi d'Olimpia, i misteri d'Eleusi, e lo scaltro Alcibiade dalla chioma incoronata.
   Poichè io sono un amante d'idee, un cercatore di pensieri, un filosofo, io piangerò la morte della divina filosofia.

III.

   Consultate delle statistiche, fate delle inchieste, interpellate dei professori e degli editori: voi stupirete del mio annunzio. La filosofia, per tutti costoro, non è morta nè sta per morire. Ogni anno si fanno dei libri di filosofia, si stampano delle memorie, si pubblicano delle riviste, si tengono dei corsi, s'indicono dei congressi. I maestri parlano, gli scolari scrivono, i tipografi stampano, gli editori vendono. Si fanno delle tesi di filosofia, delle cattedre di filosofia, dei giornali di filosofia, delle storie della filosofia, delle società di filosofia. Parrebbe di essere in un momento di prosperità speculativa, in un'età d'oro del pensiero. Si direbbe che ci fossero dei filosofi.
   Ma le cose vanno altrimenti. Leggete i libri, ascoltate i corsi, seguite i maestri, meditate le storie e scoprirete che non c'è più un respiro di vita filosofica, un soffio d'energia ideologica.
   Vecchie parole, formule rimpennacchiate, frasi senza senso, analisi che non vanno al fondo, dialettiche claudicanti, immagini fetide per lunga età, e tutto ciò mescolato, riadattato, appiccicato, confuso, galvanizzato, ecco tutta la filosofia e tutti i libri di filosofia.
   Ogni libro è una collezione di ritagli, un'esposizione di luoghi comuni, una ripetizione di frasi senza vita. Da tutti spira un'aria gelida, un senso di rassegnazione, un fiato di rancido, di disfatto, di cadaverico, di freddo, di morto che dà l'idea di una città disabitata o di un cimitero senza custode. L'anima, la vita, l'ardore, l'amore, mancano. Non ci sono più delle idee ma delle spoglie d'idee — i filosofi son morti e non son rimasti che degli scrittori di filosofia.

IV.

Il pensiero è diventato una professione. Si fabbricano delle teorie, colla stessa indifferenza colla quale si mettono insieme degli abiti. Si smerciano delle metafisiche stagionate, delle morali soffici, dei sofismi economici, secondo i bisogni e le richieste del mercato. Si fanno degli affari ma non degli atti d'amore. Si espongono le dottrine ma non si vivono. L'idea è un mezzo per vivere ma non è una forma di vita.
   Prima di tutto i filosofi d'oggi son prudenti. Non si danno ai bagordi ideologi, non si gettano nelle avventure dialettiche, non amano i romanzi speculativi. Sono piccoli, paurosi, pratici come un mercante di spilli o un impiegato al catasto. Non sanno nè amare nè odiare. La loro viltà la chiamano positivismo, la loro impotenza sentimentale, obiettivismo. Non fanno nè della metafisica immaginosa, nè della logica appassionata. Voglion fare la filosofia meno filosofica che sia possibile. Si vergognano d'esser filosofi e cercano dí appiattarsi tra i mantelli degli scienziati. Anzi proclamano che non vogliono esser che servi della scienza, dei portafiaccole per mostrar la strada, o degli epilogatori per far il riassunto supremo. Non potendo esser più l'ancella della teologia la filosofia vuol essere il reggistrascico della fisica. Ha perduto così fattamente il senno della propria dignità dominatrice che vuol farsi la serva delle sue figlie. E scesa all'ultima abiezione: non solo non è più grande ma ha perso il ricordo della sua grandezza. E bisogna vedere come ha spennato le sue ali, come ha represso i suoi battiti, come s'è pentita dei suoi voli! Poichè la scienza è in favore ha voluto parere a ogni modo una scienza e s'è tracciata la strada, s'è messo il piombo ai piedi, ha preso il fare prudente. Ricorda le scorrerie degli Ionici, di Platone, di Fichte come tante orgie giovanili, di cui ha vergogna e che vuol dimenticare a ogni costo. Così per il timore d'inventare non dice nulla, e per attaccarsi alla scienza lascia la vita. Ha fatto ogni sforzo per mozzare sè stessa.
   E c'è riuscita: s'è tolto il cuore. Non c'è più un amante delle idee per le idee, un cavalcatore che si lasci condurre dal suo cavallo, un'aquila che non tema le sue ali spiegate. Non c'è più il desiderio dell'idea, l'amore dell'idea, la passione dell'idea, l'estasi dell'idea. Il filosofo ha perduto ogni ardore, ha soffocato ogni fiamma, ha ricacciato ogni grido. Non ha più nè la forza nè la volontà d'amare: s'è posto per legge di non preferire alcuno, di non mostrare nè ciò che gli piace nè ciò che desidera. Gli manca l'entusiasmo bacchico dell'idee, quella ebrietà di pensiero che fa i sistemi pazzi e grandiosi come trionfi di montagne. È un eunuco che non sa più fecondare il mondo. Invece di darci quelle veloci intuizioni universali che radunano tutti i tempi e tutti gli spazi, tutte le cose e tutti i pensamenti in una vaga ghirlanda dialettica egli si adopra a metter su le piccole ispide siepi per impedire i passi avventurosi, e le piccole solide case ove nascondere il proprio fremito e la propria sordidezza. Non vuol far più i grandi sogni ma i precisi inventari. Di poeta d'idee s'è fatto notaro di cose. E neppure di tutte le cose. Ha messo il mondo in pezzetti, di universale s'è fatto cittadino. Non vuole andare più in là della sua porta o della sua frontiera. Ha dimenticato che si può parlare filosoficamente di tutte le cose, di tutte le relazioni, di tutti gli aspetti delle cose. Non vuol più sapere che la filosofia dev'essere la vera dominatrice del mondo, quella a cui nulla sfugge, a cui tutto accorre e tutto ritorna. Ha fatto un chiuso e ha detto: questa è filosofia, al di là c'è l'arte, la scienza, l'inferno. E rinchiuso fra le pareti della sua casa, tra i cancelli del suo orto, non ha voluto guardare più in là. Della signora del mondo ha fatto una borghesuccia di provincia.
   E vien pensato, questo tipo ideale di filosofo frigido e filisteo, come un omiciattolo rattrappito rinchiuso fra i libri e curvato sulle carte, come un cenobita libresco che non esce all'aria, che non conosce il sole, che non respira l'odore del verde. Un uomo ch'è al di fuori della vita, che sta in un mondo di fantasmi verbali, sillogizzando su incomprensibili parole. e scrivendo illeggibili libri.
   E l'immagine volgare non è falsa del tutto. La filosofia è veramente da qualche tempo la danza dei morti, o, tutt'al più, la danza dei moribondi. È avvizzita, calma, prudente, cortese, smorta come una vergine invecchiata.
   I filosofi voglion spiegare l'universo, ma si dimenticano di conoscerlo. Essi non praticano che i libri, la carta stampata, le descrizioni simboliche. Così non spiegano il mondo ma la conoscenza del mondo — le parole e non la realtà. Nessuno di loro va a chiedere alla natura il senso profondo dell'essere, la parola che dice tutto.
   Nessuno sulle rive di un bel fiume sonante, mentre l'acqua scintilla, ride, cammina, e s'infiltra nella terra e ricopre le piante, e rode le pietre, pensa all'intuizione di Talete Ionio, al mondo mobile, fuggente, perpetuo come l'acqua.
   Nessuno vedendo un'aurora di fuoco, una foresta in fiamme, un tramonto rosso e forsennato, pensa alla fantasia eraclitea del fuoco divino e vivente, che tutto anima col suo ardore.
   Nessuno udendo cantare il vento tra i cipressi neri ed austeri, penserà con Anassimene e Diogene d'Apollonia che l'aria multiforme, impalpabile, sempre presente può ben essere il principio delle cose.
   I nostri professori di filosofia sdegnano questi contatti colle cose, non hanno in sè potenza capace di trarre da un albero un'idea, da un soffio una teoria, da una luce una cosmogonia. Il loro mondo non va al di là della loro lucerna. Temerebbero di far della mitologia, di tornare agli antichi errori, di ricadere nei poemi metafisici. Non si accorgono che non si può fare una filosofia che non sia mitologica, che per spiegare le cose bisogna o prendere una di loro a madre delle altre, o animarle con una parte del nostro spirito. In fin dei conti tutte le metafisiche non sono che dell'animismo messo in trattati. Siamo rimasti alle concezioni fondamentali dei selvaggi, facendovi intorno deí sillogismi invece che delle leggende. Anche per noi tutte le cose sono animate; non forse la metafisica più diffusa è oggi quella che pone la volontà in tutti i fenomeni? Non siamo degli animisti senza confessarlo?
   Perchè non dilettarsi a creare dei sistemi pittoreschi, variati, piacevoli, ove ciascuno può trovare quel che ama, ove tutti posson sentire un respiro di vita? Perchè non dichiarare apertamente che la filosofia è un'invenzione, un giuoco, un esercizio spirituale, un edificio mitico, una poesia di concetti che noi dobbiamo sentire, vivere, amare, creare, capovolgere, confondere, suscitare a gioia dei solitari e a dispetto dei mercatanti? Perchè volerla cacciare a forza al confessionale della scienza, a chieder perdono per i peccati contro la verità, e rinchiuderla nei conventi e nelle biblioteche, col voto di povertà e di astinenza?
   Perchè farne una mendicante, una, serva, una prigioniera? Perchè rinnegare le sue origini poetiche e il suo contenuto fantastico?
   Gli è che i filosofi non son più giovíni e hanno perduto tutto l'orgoglio e tutto lo sdegno della giovinezza. Non hanno più le ambizioni favolose degli antichi, nè lo sprezzo mordace dei dominatori. Son modesti perchè non hanno la forza d'esser grandi, rispettano gli altri per farsi rispettare. Non osano attaccare, maledire, ingiuriare perchè non saprebbero difendere, esaltare, lodare. Poichè non amano non possono odiare. E poichè son deboli dicono vane le grandi imprese.
   Guardate infatti come costoro scrivono. O diluiscono in una tisica prosettina cinque o sei idee decrepite, slombate e volgari o avvolgono i resultati delle loro mediocri meditazioni in una selva selvaggia d'inutili parole barbariche. Quando vogliono elevarsi celebrano un rumoroso Valpurga classico-romantico, ove qualche demonio disoccupato mena i vuoti e sonanti termini astratti in una lugubre danza funeraria. Non c'è mai lampo, un grido, uno scoppio, un'immagine che illumini, un fremito che scuota: tutt'al più qualche scossetta galvanica quando si tratta di difendere un principio morale troppo malmenato. Allora voi li vedete, zoppicanti e freddolosi, correr dietro al lumicino della frase, e metter in mostra tutti i bolsi aggettivi, raccattati morenti sui campi delle vecchie battaglie. Come bastardi che sono si ciban d'avanzi.

V.

   Quando io vo riflettendo al pensiero contemporaneo non posso cacciare l'irriverente immagine di uno stagno grigio e molle ove delle gravi ranocchie van ripetendo a ore fisse le cantilene millenarie. E a queste ranocchie mi vien la voglia di gittar dei sassi, per vedere se cambiassero metro e se riscaldassero il loro viscido e freddo corpo.
   La filosofia è scesa dalle montagne ove dettava le leggi ed è andata nei piani ove attende le briciole. Là in basso s'è fatta gora e avrebbe bisogno di un rivolgimento completo, di una tempesta furiosa, di uno sturm und drang dello spirito, di un '93 delle idee. In verità una decapitazione in massa dei fantocci filosofici sarebbe assai gradevole cosa e non mi spiacerebbe la parte di pensator giacobino. Qual festa mettere i nostri sparuti filosofi alla lanterne e veder penzolare i loro corpi d'insegnanti in marsina alle forche del pensiero! Chi sarà il Robespierre dei filosofi decaduti?
   Noi ricominciamo oggi la nostra opera di scorridori senza paura. Noi vogliamo rompere molti fili di Lilliput, vogliamo aprire molte finestre, e soffiare assai sui tremanti castellotti della speculazione dei nostri giorni. Noi vogliamo che la filosofia sia una cosa viva, vissuta, eccitatrice di vita! Vogliamo che torni alle cose, che torni allo spirito, che sia personale, vivace, fantastica, creatrice. Vogliamo che ci faccia vedere le idee, non che ce le distenda innanzi come cadaverucci impliati. Vogliamo che sia fresca come un mondo nuovo, che sia sentita come un amore, che sia furiosa come un barbaro e profonda più di un mare. Non vogliamo che sia qualcosa di opaco, d'inutile, di meschino che stia fra noi e il mondo, ma che sia una parte viva di noi, una parte viva del mondo. Anzi che sia l'elemento più alto dello spirito, il fiore sommo dell'universo. Invece della massaia casalinga, insignificante e pudica come una Lucia Mondella, desideriamo la bella femmina antica che canta e spasima sui prati dai grandi fiori.

VI.

   Ma ci fu veramente una tale femmina? — fu vissuta una tale filosofia?
   Io cominciavo volendo lodare gli antichi ed ora che ho rampognato i moderni, come a ogni buon vecchio conviene, non so in qual tempo additare i miei morti fratelli.
   Forse io pensavo alla Grecia e il barbuto Socrate, seccatore perpetuo d'Atene, circondato da arguti sofisti e da maliziosi giovinetti, mi tornava nella memoria. Forse all'ombra degli olivi percossi dal vento riudivo la voce del fanciullo Platone che narrava i suoi miti agli adolescenti graziosi e curiosi. O piuttosto, in una piccola camera di Voorburg io rivedevo il profilo stanco di un piccolo giudeo che stava salendo a Dio; o alla tavola rotonda dell'Hòtel d'Angleterre di Francoforte scorgevo i profondi occhi e la bocca beffarda di Arturo Schopenhauer. O forse sognavo di un passato così lontano, così irreale, così vago che potrebbe pur essere un futuro vicino. Invece di lodare i morti attenderò allora quelli che non son nati.

VII.

   Nel frattempo farò la critica di me stesso, sarò il mio tormentatore e il mio distruttore. E il mio io scettico dirà al mio me poetico e furibondo: «Caro amico, tu hai speso molte parole per nulla, il che accade a molti ma non dovrebbe accadere a te. Tutto quello che hai detto sulla filosofia, tutti i tuoi discorsi, i tuoi slanci, le tue effusioni, le tue apostrofi non vanno a colpire nel segno. Tu hai rimproverato alla filosofia precisamente ciò che forma suoi caratteri filosofici, cioè la calma, la prudenza, la freddezza. La tua filosofia non sarebbe più la filosofia ma sarebbe la poesia. Un nuovo genere poetico: la lirica ideologica. Tu vuoi fare il romantico, e invochi la vita, la libertà, la natura, la luce, il vento e che so io. Ma dimentichi che tutto ciò va bene in un dramma, in un poema, in un romanzo ma non è roba per la filosofia. Quando il filosofo ha una biblioteca, un vocabolario, un compasso e una donna che gli prepari il cibo e il letto non ha bisogno d'altro. Dev'essere precisamente come tu non vuoi, o irriverente poeta abortito. Fai dei versi, purchè sian giusti di sillabe, e metti pur dentro tutte quelle diavolerie che ami, ma per carità non voler mettere il vento dove c'è bisogno di bonaccia, e la passione ove si devono uccider le passioni.
   Al filosofo abbiamo concesso un solo amore, un amore casto, celeste, infecondo, quello della verità. Se vuoi esser filosofo contentati di questa amante lontana, di questa Melisanda di Tripoli che non vedrai sulla terra. Sii saggio, modesto, discreto, bene educato come i tuoi contemporanei. Non portare lo scandalo nel tempio e non indurre i filosofi in tentazione. Ci sarebbe da vederli, come tanti Faust rimessi a nuovo, lasciare i loro libri per correre all'aperto a fare ai pugni fra loro. Che il nostro santissimo Emanuele Kant ci tenga sotto la sua professorale protezione!»
   A questo discorso così saggio, così misurato, così profondo il mio me romantico non sa che rispondere. Non sa neppure invocare il principio d'autorità. Non sa citare nè Platone nè Shelley. Non sa ricordare che Aristotele e Malebranche hanno detto che la filosofia deve interessare anche il cuore. E invece di difendersi agisce.
   E saremo così gli enfants perdus della filosofia, i fuggiaschi, i tormentatori e i passionali. E non sdegneremo accoppiare alle nostre dialettiche le immagini e mettere in scena i filosofi prima di accopparli. Così invece della filosofia diranno che facciamo della letteratura filosofica o della filosofia letteraria. I filosofi ci scaccieranno perché siamo amanti delle intuizioni e i poeti non vorranno saper di noi, come troppo amanti dei concetti.
   Andremo allora, soli, per la strada solitaria, con delle freccie e dei flauti. E salendo sui monti alti e belli, suoneremo a noi stessi i nostri motivi più cari e scaglieremo a ogni vento le nostre freccie più argute.

  (1) Questo articolo non è che la sinfonia introduttiva per indicare lo spirito generale della nostra opera. Seguiranno altri, più filosofici, che andranno a formare un libro sulla morte della filosofia.


◄ Fascicolo 10
◄ Giovanni Papini